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Vedete dunque che doveva avere fascino; e di fatto sembrava affascinare quasi tutti — o meglio, tutti tranne me. Questo perché mi metteva in imbarazzo, trascinandomi sempre qua e là per farmi conoscere i suoi amici, tutti quanti dal suo banchiere al barbiere che lo radeva ogni giorno. E, naturalmente, tutte le sue amiche. Ma c’era anche di peggio: non faceva che abbracciarmi e baciarmi e fare i miei elogi. Mi vergognavo moltissimo. Prima di tutto non c’era niente da elogiare. Io ero un autentico ragazzo di campagna. Credevo in Gesù e dicevo fedelmente le mie preghiere. Sapevo che Babbo Natale esisteva. E a casa, nell’Alabama, non portavo mai le scarpe, se non per andare in chiesa; inverno o estate.
Era una vera tortura farsi trascinare qua e là per le strade di New Orleans con quelle scarpe con i lacci stretti, calde come l’inferno, pesanti come il piombo. Non so dire cosa fosse peggio — se le scarpe o il cibo. A casa ero abituato al pollo fritto e ai cavoli ricci e ai fagioli americani e al pane di meliga e ad altre buone cose. Ma i ristoranti di New Orleans! Non dimenticherò mai la mia prima ostrica, fu come se mi scivolasse in gola un brutto sogno; passarono decenni prima che ne ingoiassi un’altra. In quanto poi alla piccante cucina creola — mi bastava pensarci perché mi venisse il brucior di stomaco. No, grazie, io desideravo con tutto il cuore biscotti appena usciti dal forno e latte appena munto dalle vacche e melassa fatta in casa appena versata dal secchio.
Il mio povero padre non aveva idea di quanto fossi infelice, un po’ perché non glielo avevo mai fatto capire, né tanto meno glielo avevo mai detto; e un po’ perché, nonostante le proteste di mia madre, era riuscito ad avermi legalmente in custodia per quelle vacanze di Natale.
Mi diceva: «Dimmi la verità. Non ti piacerebbe venire a vivere qui con me a New Orleans?».
«Non posso».
«Come non puoi?».
«Mi manca Sook, mi manca Queenie; è una piccola rat terrier, una buffa bestiola. Ma noi le vogliamo bene».
Diceva allora: «E a me non vuoi bene?».
Io dicevo «Sì». Ma in verità, a parte Sook e Queenie e qualche cugino e la fotografia della mia bella mamma accanto al letto, io non avevo idea di cosa significasse voler bene.
Lo scoprii presto. Il giorno prima di Natale, mentre passeggiavamo in Canal Street, mi fermai di botto, ipnotizzato da un oggetto magico, esposto nella vetrina di un grande negozio di giocattoli. Era un aeromodello abbastanza grande per potercisi sedere e pedalare come su una bicicletta. Era verde con un’elica rossa. Ero convinto che, pedalando con sufficiente energia, avrebbe decollato e preso il volo! Come sarebbe stato bello! Mi pareva di vedere i miei cugini bloccati a terra mentre io volavo tra le nuvole. E va’ a parlare di verde! Risi; e risi e risi. Era la prima volta che facevo qualcosa che facesse piacere a mio padre, anche se lui non sapeva che cosa mi fosse parso così buffo.
Quella sera pregai che Babbo Natale mi portasse l’aeroplano.
Mio padre aveva già comprato l’albero e insieme passavamo molto tempo nei grandi magazzini a scegliere oggetti con cui decorarlo. Poi feci uno sbaglio. Misi sotto l’albero una fotografia di mia madre. Non appena la vide, mio padre si sbiancò e cominciò a tremare. Io non sapevo che fare. Ma lui sì. Aprì un armadietto e tirò fuori un bicchiere alto e una bottiglia. Riconobbi la bottiglia perché tutti i miei zii dell’Alabama ne avevano molte come quella. Whisky di contrabbando del periodo proibizionista. Riempì il bicchiere e lo bevve quasi d’un fiato. Dopo di che fu come se la fotografia fosse sparita.
E così aspettavo la Vigilia e l’arrivo, sempre eccitante, del grasso Babbo Natale. Naturalmente, non avevo mai visto uno stridulo gigante col ventre gonfio e un pesante sacco sulle spalle piombar giù dal camino ed elargire allegramente la propria generosità sotto un albero di Natale. Mio cugino Billy Bob, che era una carogna di nanerottolo con un cervello come un pugno di ferro, diceva che erano tutte fesserie, che quella creatura proprio non esisteva.
«Un corno», diceva. «Uno che crede in Babbo Natale può anche credere che un mulo è un cavallo». Questa discussione si svolse nella piccola piazza del tribunale. Io dissi: «Babbo Natale esiste perché ciò che lui fa è la volontà di Dio e la volontà di Dio è sempre la verità». E Billy Bob, dopo aver sputato per terra, si allontanò: «Be’, sembra proprio che c’è capitato tra i piedi un altro predicatore».
Giuravo sempre a me stesso che la vigilia di Natale non mi sarei addormentato; volevo sentire la danza saltellante delle renne sul tetto e farmi trovare ai piedi del camino per stringere la mano a Babbo Natale. E in questa particolare vigilia, mi sembrava che non ci fosse niente di più facile che star sveglio.
Nella casa di mio padre c’erano tre piani e sette stanze, molte delle quali enormi, specie le tre che portavano al patio: un salotto, una sala da pranzo e una sala da «musica» per quelli che avevano voglia di ballare e di divertirsi e di giocare a carte. I due piani superiori erano guarniti di balconi traforati e ai loro ghirigori di ferro verde scuro s’intrecciavano buganvillee e ondeggianti viticci di scarlatti formiconi — piante, queste, simili a lucertole con rosse lingue guizzanti. Era di quelle case che fanno la miglior figura se hanno pavimenti laccati e un po’ di vimini qua, un po’ di velluto là. Sarebbe stato possibile scambiarla per la casa d’un ricco; ma era, più precisamente, la casa di un uomo con una passione per l’eleganza. Per un povero (ma felice) ragazzo scalzo dell’Alabama era un mistero come potesse appagare questo suo desiderio.
Non lo era però per mia madre che, dopo essersi laureata, stava sfruttando al massimo le sue grazie di bella sudista e nello stesso tempo s’affaccendava per trovare a New York un fidanzato veramente adatto, in grado cioè di offrirle appartamenti in Sutton Place e pellicce di zibellino. No, le risorse di mio padre le erano ben note, anche se ad esse non fece mai alcun cenno se non molti anni dopo, quando da un pezzo si era procurata fili di perle da far risplendere intorno alla sua gola avvolta nell’ermellino.
Era venuta a trovarmi in un collegio snob del New England (dove la mia retta era pagata dal suo ricco e generoso marito) e qui qualcosa che le dissi la fece montare in collera; urlò: «Davvero non sai come fa a vivere così bene? A noleggiare yacht e a far crociere nelle isole greche? Sono le sue mogli! Pensa a tutta la lunga filza. Tutte vedove. Tutte ricche. Molto ricche. E tutte molto più vecchie di lui. Troppo vecchie perché un giovane equilibrato potesse sposarle. È per questo che sei il suo unico figlio. Ed è per questo che io non avrò mai un altro figlio — ero troppo giovane per aver bambini, ma lui era una bestia, mi distrusse, mi rovinò...».
Ridi gigolo, danza gigolo che per questo sei pagato... Luna, luna di Miami... Per me è la prima volta, ti prego sii gentile... Ehi, signore, me lo darebbe un dime?... Ridi gigolo, danza gigolo che per questo sei pagato...
Mentre lei parlava (e io cercavo di non ascoltarla perché, dicendomi che la mia nascita l’aveva distrutta, era lei a distruggere me), mi risuonavano in mente queste canzonette o altre dello stesso genere. Mi aiutavano a non udirla e mi richiamavano alla memoria la strana, indimenticabile festa che mio padre aveva dato a New Orleans quella vigilia di Natale.
Il patio era pieno di candele e anche le tre stanze che ad esso conducevano. Quasi tutti gli invitati si erano raccolti nel salotto, dove il fievole fuoco del caminetto faceva luccicare l’albero; altri invece ballavano nella sala da musica e nel patio al suono di un grammofono a manovella. Io, dopo essere stato presentato agli invitati ed essere stato oggetto di molti complimenti, ero stato mandato di sopra; ma dalla terrazza davanti alla porta a vetri della mia camera potei assistere all’intera festa e guardare tutte le coppie che ballavano. Vidi così mio padre fare un giro di valzer con una graziosa signora intorno allo stagno che circondava la fontana a forma di sirena. Lei era effettivamente graziosa e indossava un diafano vestito argenteo che splendeva al lume delle candele; ma era vecchia — aveva almeno dieci anni più di mio padre, che ne aveva allora trentacinque.
Mi resi improvvisamente conto che mio padre era di gran lunga il più giovane dei presenti. Nessuna delle signore, per quanto affascinante, aveva un’età inferiore a quella della snella danzatrice di valzer con il fluttuante vestito argenteo. Lo stesso valeva anche per gli uomini, molti dei quali fumavano fragranti sigari Avana; per almeno metà, erano talmente vecchi da poter essere i padri di mio padre.
Poi vidi qualcosa che mi fece sussultare. Mio padre e la sua agile partner erano arrivati danzando in una nicchia oscurata da formiconi scarlatti; e si stavano abbracciando, baciando. Ero così sorpreso, così arrabbiato, che corsi in camera mia, mi buttai sul letto e nascosi la testa sotto le coperte. Cosa poteva volere il mio giovane e attraente padre da una vecchia come quella? E perché tutta quella gente non se ne tornava a casa e non dava modo a Babbo Natale di fare il suo ingresso? Rimasi sveglio per ore ad ascoltarli andar via, e quando mio padre disse arrivederci per l’ultima volta, lo udii salire le scale e aprire la mia porta per guardarmi; ma io finsi di dormire.
Accaddero diverse cose che mi tennero sveglio tutta la notte. Prima di tutto i passi, il rumore di mio padre che correva su e giù per le scale, respirando a fatica. Dovevo scoprire che cosa stava combinando. Mi nascosi quindi sul balcone, tra le buganvillee. Godevo da lì di una visione totale del salotto e dell’albero e del caminetto dove ancora ardeva un pallido fuoco. E vedevo anche mio padre. Stava strisciando intorno all’albero per sistemare una piramide di pacchi. Avvolti in carta purpurea e rossa e dorata e bianca e azzurra, frusciavano ogni volta che lui li spostava. Mi girava la testa perché ciò che vedevo mi costringeva a riesaminare ogni cosa. Se quei regali erano destinati a me, era ovvio che non era stato il Signore a ordinarli né Babbo Natale a consegnarli; no, erano doni comprati e impaccati da mio padre. In altre parole, il mio sporco cuginetto Billy Bob e gli altri sporchi ragazzini del suo stampo non avevano mentito quando mi prendevano in giro e mi dicevano che Babbo Natale non esiste. Ma il pensiero che più mi angustiava era questo: anche Sook sapeva la verità e mi aveva mentito? No, Sook non mi avrebbe mai mentito. Lei credeva! Solo che — be’, anche se aveva passato i sessanta, sotto certi aspetti era rimasta una bambina, almeno quanto ero un bambino io.
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Continuai a guardare finché mio padre non ebbe sbrigato tutte le sue incombenze e spento le poche candele che erano ancora accese. Poi aspettai per essere sicuro che fosse a letto e profondamente addormentato. Scesi allora in punta di piedi in salotto, che ancora puzzava di gardenie e di sigari Avana.
Mi sedetti lì pensando: «Adesso dovrò essere io a dire la verità a Sook». Una rabbia, una strana malizia salivano a spirale dentro di me: non erano rivolte contro mio padre, anche se alla fine fu lui che ne rimase vittima.
Quando venne l’alba, esaminai i cartellini attaccati ai vari pacchi. Dicevano tutti «Per Buddy». Tutti tranne uno, su cui era scritto «Per Evangeline». Evangeline era un’anziana donna di colore che beveva Coca-Cola dalla mattina alla sera e pesava centotrenta chili; era la governante di mio padre — e gli faceva anche da mamma. Decisi di aprire i pacchi. Era la mattina di Natale e io ero sveglio, e allora perché no? Non mi prenderò la briga di descrivere ciò che contenevano: nient’altro che camicie e maglioni e altre squallide cose della stessa specie. Il solo regalo che apprezzai fu una pistola a capsule di gran classe. Mi venne in mente che sarebbe stato divertente svegliare mio padre sparando. Fu ciò che feci. Bang. Bang. Bang.
Si precipitò fuori della sua camera, con gli occhi stralunati.
Bang. Bang. Bang.
«Buddy — cosa diavolo stai facendo?».
Bang. Bang. Bang.
«Smettila!».
Risi. «Guarda, papà. Guarda che cose meravigliose mi ha portato Babbo Natale».
Ormai calmatosi, entrò in salotto e mi abbracciò: «Ti piace quello che ti ha portato Babbo Natale?».
Gli sorrisi. E lui sorrise a me. Ci fu un lungo momento di tenerezza, che andò distrutto quando io dissi: «Sì, ma tu cosa mi regali, papà?». Il suo sorriso svanì. I suoi occhi si restrinsero insospettiti — pensava, era chiaro, che io cercassi di fare il furbo. Ma poi arrossì, come se si vergognasse di pensare ciò che stava pensando. Mi accarezzò la testa, tossì e disse: «Be’, avevo pensato d’aspettare per lasciarti scegliere una cosa che volevi. Non c’è niente di particolare che tu desideri?». Gli ricordai l’aeroplano che avevamo visto nel negozio di giocattoli di Canal Street. Il suo viso s’afflosciò. Oh, sì, si ricordava benissimo dell’aeroplano e di quanto era caro. L’indomani tuttavia, mi trovai seduto in quell’aeroplano a sognare che stavo salendo in cielo, mentre mio padre riempiva un assegno per un commesso tutto contento. Si era discussa l’ipotesi di spedire l’apparecchio in Alabama, ma io fui irremovibile — insistetti per portarmelo dietro sul pullman che avrei preso quel pomeriggio alle due. Il commesso risolse la questione telefonando alla società dei pullman, e la risposta fu che non avrebbero avuto difficoltà a sistemare la faccenda. Ma non mi ero ancora liberato di New Orleans. Il problema era una grande fiaschetta d’argento di whisky di contrabbando; forse fu a causa della mia partenza, ma sta di fatto che mio padre aveva bevuto tutto il giorno e, mentre andavamo alla stazione dei pullman, mi spaventò afferrandomi un polso e sussurrando con voce aspra: «Io non ti lascio partire. Non posso permetterti di tornare da quella famiglia di matti in quella vecchia casa di matti. Guarda come ti hanno ridotto. Un ragazzo di sei anni, quasi sette, che parla di Babbo Natale! È tutta colpa loro, di tutte quelle vecchie zitelle inacidite con le loro Bibbie e i loro ferri da calza e di quegli zii sempre ubriachi. Ascoltami, Buddy. Dio non esiste! Babbo Natale non esiste!». Mi stava stringendo il polso con tanta forza da farmi male. «Certe volte, Dio mio, penso che tua madre e io, tutti e due, dovremmo ammazzarci per aver permesso che succedesse questo...». (Lui non si ammazzò mai, ma mia madre sì: imboccò trenta anni fa la strada del Seconal.) «Dammi un bacio. Ti prego. Ti prego. Dammi un bacio. Di’ al tuo papà che gli vuoi bene». Ma io non potevo parlare. Mi terrorizzava l’idea di perdere il pullman. Ed ero preoccupato per il mio aeroplano, legato con una cinghia al tetto del taxi. «Dimmi: Ti voglio bene. Dimmelo. Ti prego, Buddy. Dimmelo».
Per mia fortuna il taxista era un uomo di buon cuore. Senza il suo aiuto, infatti, e senza l’aiuto di alcuni efficienti facchini e di un benevolo poliziotto, non so cosa sarebbe successo quando arrivammo alla stazione. Mio padre barcollava al punto da non poter quasi camminare, ma il poliziotto gli parlò, lo calmò, lo aiutò a star dritto, e il taxista promise di riportarlo a casa sano e salvo. Mio padre, però, non volle andar via prima d’aver visto i facchini caricarmi sul pullman.
Una volta salito, mi rannicchiai su un sedile e chiusi gli occhi. Sentivo uno stranissimo male. Un male opprimente che mi doleva dappertutto. Pensai che, se mi fossi tolto le mie pesanti scarpe da città, quei mostruosi strumenti di tortura, la sofferenza si sarebbe placata. Me le tolsi, ma quel male misterioso non mi lasciò. In un certo senso, non mi ha mai lasciato; e non mi lascerà mai.
Dodici ore dopo, ero a letto a casa mia. La stanza era al buio. Sook sedeva accanto a me dondolando su una sedia a dondolo, con un rumore rasserenante quanto le onde dell’oceano. Avevo cercato di raccontarle tutto ciò che era accaduto e avevo smesso solo quando ero diventato rauco come un cane che ha troppo ululato. Mi infilò le dita tra i capelli e disse: «Ma certo che Babbo Natale esiste. Solo che non c’è nessuno che possa fare da solo tutto quello che deve fare lui. E allora il Signore ha distribuito i suoi compiti tra tutti noi. Per questo noi siamo tutti Babbo Natale. Io. Tu. Persino tuo cugino Billy Bob. E adesso dormi. Conta le stelle. Pensa a cose più serene. Alla neve, per esempio. Mi dispiace che tu non abbia potuto vederla. Ma ora la neve sta cadendo attraverso le stelle...». Le stelle sfavillarono, la neve turbinò nella mia testa; l’ultima cosa che ricordai fu la voce pacata del Signore che mi parlava di qualcosa che dovevo fare. L’indomani la feci. Andai con Sook all’ufficio postale e comprai una cartolina da un cent. È una cartolina che c’è ancora. L’hanno trovata l’anno scorso nella cassetta di sicurezza di mio padre dopo la sua morte. Ed ecco cosa gli avevo scritto: Ciao papà spero che tu stia bene io sto bene e sto imparando a pedalare il mio aeroplano così svelto che presto sarò in cielo e così tieni gli occhi aperti e sì ti voglio bene Buddy.
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Ma certo che Babbo Natale esiste.
Solo che non c’è nessuno che possa fare
da solo tutto quello che deve fare lui.
E allora il Signore ha distribuito i suoi compiti
tra tutti noi.
Per questo noi siamo tutti Babbo Natale.
Io.
Tu.
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Last Edit: 11 years 4 months ago by kriskris.
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20 modi per disorientare Babbo natale
da 1 a 10
1.
Invece del latte e dei biscotti, fategli trovare un’insalata, ed un biglietto in cui scriverete che secondo voi farebbe meglio a perdere qualche chilo.
2.
Mentre è in casa, uscite di soppiatto, raggiungete la sua slitta e lasciategli una multa per eccesso di velocità.
3.
Lasciategli un biglietto dicendogli che siete in vacanza. Chiedetegli se potrebbe essere così gentile da annaffiarvi le piante.
4.
Mentre è in casa, sostituitegli le renne con alter identiche. Guardate cosa accade quando cercherà di farle volare.
5.
Tenete un toro nel vostro soggiorno. Se pensate che un toro si infuria quando vede un drappo rosso, immaginate l’effetto che gli farà quel grosso vestito rosso .
6.
Costruite una schiera di pupazzi di neve dall’aspetto minaccioso e lasciateli sul tetto muniti di cartelli con scritto: “Odiamo il Natale” e “Via via Babbo Natale”.
7.
Lasciategli un biglietto accantop al telefono, spiegando che l’ha cercato la moglie per ricordargli di comprare pane e latte prima di tornare a casa.
8.
Preparategli una festa a sorpresa per quando esce dal camino. Non lasciatelo andare via prima che arrivino le spogliarelliste.
9.
Mentre è in casa, raggiungete la slitta e sedetici sopra. Non appena è di ritorno e vi vede, ditegli che non avrebbe dovuto dimenticare di pagare l’ultima cambiale, e volate via.
10.
Preparate un piatto pieno di dolci e un bicchierone di latte con un biglietto in cui scriverete: per la Befana.
Preparatene un altro con un mezzo biscotto secco e un bicchiere sporco con qualche goccia di latte andato male. In un biglietto scriverete: “Per Babbo Natale : ( “
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DOMENICO GHIRLANDAIO - NATIVITA'
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Last Edit: 11 years 4 months ago by papone.
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Una Natività pienamente rinascimentale questa dipinta da Domenico Ghirlandaio in Santa Trinita a Firenze. La pala, elogiata dal Vasari come capolavoro supremo del pittore e tale da “far meravigliare ogni persona intelligente”, occupa il posto d’onore nella cappella affrescata dallo stesso artista con storie di san Francesco. Siamo nel 1485. Due anni prima era arrivato a Firenze, portatovi dal banchiere Tommaso Portinari, il trittico di Hugo Van der Goes oggi agli Uffizi. Il naturalismo fiammingo che in quell’opera si esprime al livello più alto, suggestionò profondamente l'ambiente artistico fiorentino.
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Last Edit: 11 years 4 months ago by papone.
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Il primo a esserne colpito fu il Ghirlandaio, che in questo dipinto mostra di aver tratto notevole profitto dallo studio del suo collega del Nord Europa. E infatti il fiore di iris nella destra è una citazione diretta del Trittico Portinari. Allo stesso modo si ispirano alla “pittura della realtà” di Hugo Van der Goes, le fisionomie minuziosamente vere dei pastori, l’ombra del cardellino sulla pietra, la natura morta di umili oggetti sulla sinistra, il gioco sottile dell’ombra e della luce sul vello degli animali, sulla pelle e sulle vesti degli astanti.
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Ciononostante il Ghirlandaio resta un grande pittore italiano, anzi fiorentino, nel dominio della prospettiva, nel controllo dello spazio misurabile.
La sua Natività è ambientata in un nitido paesaggio di colline toscane. La valle che si vede sullo sfondo è quella dell’Arno, fitta di città e di torri, cesellata come un prezioso gioiello. Il classicismo rinascimentale si esprime nella scelta dell’ambiente. L’evangelica povertà del presepio si colloca in uno scenario di ruderi romani, fra sarcofagi sontuosamente iscritti e scolpiti, colonne scanalate, capitelli corinzi e archi trionfali attraversati dalla cavalcata dei Magi. Tale iperbolica scenografia antico romana non vuole essere soltanto un generico omaggio al mondo classico. Essa ha un preciso significato simbolico. I ruderi archeologici sono emblema del mondo antico che la nascita di Cristo rinnova.
Ghirlandaio, certo consigliato da teologi e umanisti, sviluppa il concetto e lo mette in figura con straordinaria efficacia. Perché il sarcofago romano che funge da culla per il piccolo Gesù porta iscritta la profezia dell’augure Fulvio vissuto al tempo di Pompeo e morto a Gerusalemme.
Dalla sua tomba sarebbe nato un dio; così aveva profetizzato il sacerdote pagano. In tale prefigurazione, il riferimento a Cristo vittorioso del mondo antico è evidente. Con la nascita del Salvatore si conclude il tempo dell’Attesa. L’evento annunciato a Cesare Augusto dalla Sibilla Tiburtina, secondo la celebre egloga iv di Virgilio, si è finalmente realizzato. Nella grotta di Betlemme il mondo gira sul suo asse. Con la nascita di Cristo si è aperta una nuova epoca nella storia degli uomini. Questo è il messaggio che, dopo cinque secoli, ci arriva dalla Natività del Ghirlandaio.
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Last Edit: 11 years 4 months ago by papone.
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5.
Massimo, girando dietro al bancone, andò a prendere il foglio dalle mani di Aldo.
«Non sono stato io» confermò Massimo, mentre dava un’occhiata al contenuto della busta. «Fra l’altro, la busta è visibilmente autentica, e il tipo di carta è quello che la Oegea usa per questo tipo di comunicazioni. Poi, guarda qui» disse Massimo, estraendo dalla busta un piccolo calendarietto. «Hanno messo anche il calendario con i giorni colorati per farti vedere quando mettere fuori la roba. Se credi che sia uno scherzo, chiunque sia il buontempone, di mestiere fa il tipografo».
«Chiunque sia» disse Pilade «io so che mestiere fa la su’ mamma. Perché questo ’un è uno scherzo. Questo è come vanno le cose in questo posto vì».
Il senato annuì, tentennando gravemente il capo.
Nei giorni immediatamente vicini al primo di dicembre, la gente di Pineta si sbizzarrì nei modi più impensabili per sfogare la propria rabbia sulla Oegea e sui peraltro incolpevoli lavoratori della società; alcuni avevano lamentato malfunzionamenti, magagne o altro ancora; ad una intera via (via delle Ortensie, vicino al centro) una notte avevano rubato tutti i bidoncini dell’organico. Lo spregio più spettacolare, fino al primo dicembre, era stato quello di alcuni fantasiosi giovinastri che nottetempo avevano cementato al marciapiede una campana destinata alla raccolta vetro/plastica, causando la mattina dopo il ribaltamento del furgoncino elettrico della nettezza urbana preposto allo svuotamento, il ferimento lieve del conducente Nottolini Loris e il ferimento più grave dell’addetto alla catena Barracani Fulvio (che, essendosi messo a ridere quando l’Apino elettrico si era ribaltato, era stato preso violentemente a cazzotti dal Nottolini medesimo, ferito sì ma ancora in forma, una volta disincagliatosi dalla cabina guida).
In questo periodo, il Del Tacca aveva tenuto comizio più o meno ogni mattina, ribadendo la propria totale mancanza di fiducia nella società Oegea e snocciolando ogni mattina tutti i motivi per cui tutto il personale della società, a partire dal consiglio di amministrazione fino all’ultimo dei netturbini, andasse appeso per gli alluci e dondolato forte.
La mattina di lunedì cinque dicembre, invece, gli abitanti del quartiere Trieste si svegliarono letteralmente sommersi dai rifiuti. Durante la notte, infatti, qualcuno aveva sistematicamente aperto tutti i bidoncini dell’organico, ne aveva estratto i relativi sacchettini in plastica biodegradabile, li aveva strappati e ne aveva sparso il contenuto per tutta la via; il vento, che da queste parti non manca mai e che molti anni prima aveva ispirato il nome del quartiere, aveva fatto il resto.
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Last Edit: 11 years 4 months ago by papone.
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Il giorno successivo, martedì sei dicembre, il fattaccio era divenuto di pubblico dominio, e fatto oggetto di commento in lungo e soprattutto in largo: l’oratore più attivo era stato difatti il Del Tacca, il quale si era sperticato in lodi, poco usuali per il criticone che era sempre stato, nei confronti dell’ignoto rovesciatore di immondizia.
E il nostro sferoidale pensionato si era appena rimesso a sedere, dopo aver detto per l’ennesima volta «Io ’un so chi sia, ma chiunque sia è un ganzo», quando la porta del bar si aprì e fece la sua comparsa il dottor commissario Vinicio Fusco, in impermeabile e naso rosso e gocciolante.
«Alla grazia della legge!» disse Ampelio, quella mattina di umore più allegro del solito. «Prende qualcosa, signor commissario?».
«Sì. Un raffreddoraccio, mi sa» disse il Fusco, parlando dentro i baffi, mentre si avvicinava al bancone. «Sono stato fuori al vento tutta la mattina, in Trieste. C’è sempre un vento bestiale, lì. Freddo che ti entra nelle ossa».
«Posso farle qualcosa per scaldarla un po’» propose Massimo. «Ha mai assaggiato la torpedine?».
Per chi non fosse mai entrato in un bar di Livorno e dintorni, ecco a voi la torpedine: ovvero un ponce a vela rinforzato con una spolveratina di peperoncino piccante. L’ideale per non sentire il freddo, secondo alcuni. L’ideale per non sentire più niente, secondo altri. Mettiamola così: non è una bevanda con cui si possa pasteggiare.
«Sarei in servizio» disse Fusco, poco convinto. «Non è il caso che beva in servizio».
«Che discorzi» disse Ampelio. «Ora ’un è mia in servizio. Ora è ar barre».
Fusco, dopo essersi voltato un attimo verso Ampelio, si sedette ad uno sgabello con un piccolo saltino, si sbottonò l’impermeabile e fece a Massimo un cenno affermativo. Torpedine.
«O come mai in Trieste?» chiese il Rimediotti. «Per via del sudicio?».
Fusco, mentre guardava Massimo che gli stava preparando la torpedine, annuì piano piano.
«Sì. In un certo senso, sì».
«Ma perché, ora indagate anche sulla loia?».
Fusco, sempre guardando Massimo, negò con la testa.
«Due vicini. Due tizi che si odiano con tutte le loro forze da un decennio. Ci chiamano una volta al mese, le pari uno e le dispari l’altro. Uno dei due ci ha telefonato dicendo che aveva visto quella notte il suo vicino che vuotava i bidoncini della spazzatura. Abbiamo suonato alla persona in questione…» Fusco fece una pausa per provare un piccolo sorso magmaceo «… e questo ci ha aperto in vestaglia, ciabatte e borsa dell’acqua calda. A sentir lui, era in casa dalla notte prima con trentanove di febbre. A sentire quell’altro, la febbre era la prova definitiva che era stato in giro tutta la notte a rovesciare sacchini».
Fusco si fermò per buttare giù un altro po’ di lava.
«Hanno cominciato a litigare di nuovo con noi lì presenti. A un certo punto hanno anche iniziato a insultare l’agente Michelassi, che a parere del secondo di questi due figuri sarebbe parente di quell’altro e quindi per questo motivo noi della polizia copriremmo tutte le sue malefatte. A quel punto mi sono incazzato e ho minacciato di portarli tutti in questura, però ormai tutto il freddo me l’ero già preso».
«Quindi la spazzatura non c’entra, via».
Fusco scosse la testa.
«Ma lei personalmente cosa ne pensa di questa cosa?».
Fusco prese un lungo sorso di torpedine, tossicchiò e si pulì i baffi con un tovagliolino, quindi annuì, come chi si ricorda di qualcosa di molto importante. Scese dallo sgabello, e mentre cominciava a riabbottonarsi cominciò a parlare:
«Mah, non è una cosa che mi riguarda. Al momento, nessuno ha sporto denuncia, quindi la cosa non mi riguarda. Se qualcuno dovesse sporgere denuncia, la cosa cambierebbe. Però, a mio avviso, non c’è da preoccuparsi» disse, e aggiunse con enfasi: «Si tratta sicuramente di una ragazzata».
«Una ragazzata?».
Fusco, piano piano, puntò lo sguardo sul Del Tacca e, guardandolo malissimo, sentenziò scandendo bene le parole:
«Una ragazzata. L’altra settimana hanno inchiavardato una campana, e oggi hanno rovesciato dei sacchettini. Domani sarà passato tutto, voglio sperare».
E, tranquillo come se n’era entrato, uscì.
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papone
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«Secondo me ce l’aveva con te» disse Aldo, mentre mescolava le carte.
«Anche per me» confermò Pilade.
«O quella?» disse Ampelio. «Perché ce la dovrebbe ave’ con Pilade?».
«Mah, perché sono due settimane che Pilade maledice la raccolta differenziata e chi ci lavora» disse Aldo. «E questo è il punto uno. Punto due, dimmi te che motivo aveva stamani il Fusco di passare da qui. Bere, all’inizio, non voleva. Di strada, non è di strada. Se stamani era in Trieste ed è passato da qui per andare in commissariato, vuol dire che voleva passare da qui. Te come te lo spieghi?».
«Mah, io ’un tento mai di spiegammi nulla. Ho visto che vivo bene lo stesso. Sarà come dite voi. Per me, comunque, che lo penzi o che ’un lo penzi, ha ragione in una ’osa».
«E sarebbe?».
«Che questi son de’ ragazzotti che si son divertiti una nottata, e via. È una ’osa da ’un danni peso».
Quanto grossolanamente Ampelio si fosse sbagliato in questa valutazione venne fuori di brutto nelle due settimane successive.
Il rovesciamento dei bidoncini del rifiuto organico, come detto, invece di estinguersi si espanse; il vandalo (o i vandali) prese coraggio (o presero coraggio) e dal quartiere singolo si passò alla cittadina.
E la cittadina, come da tradizione italiana, si incazzò di brutto. Fino a che, il giorno di Natale, venne presa una decisione.
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papone
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A quale film allude la figura sotto?
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papone
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Ma forse preferite una domanda più natalizia?
Allora,
un canto tradizionale francese è stato tradotto in inglese alla fine del 19esimo secolo, diventando in breve uno dei canti natalizi più popolare nel mondo anglo-sassone.
Qual è il titolo inglese di questo brano?
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papone
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Last Edit: 11 years 4 months ago by kriskris.
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kriskris
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Alda Merini
Buon Natale
A Natale non si fanno cattivi
pensieri ma chi è solo
lo vorrebbe saltare questo giorno.
A tutti loro auguro
di vivere un Natale
in compagnia.
Un pensiero lo rivolgo a
tutti quelli che soffrono
per una malattia.
A coloro auguro un Natale
di speranza e di letizia.
Ma quelli che in questo giorno
hanno un posto privilegiato
nel mio cuore
sono i piccoli mocciosi
che vedono il Natale
attraverso le confezioni dei regali.
Agli adulti auguro di esaudire
tutte le loro aspettative.
Per i bambini poveri
che non vivono nel paese dei balocchi
auguro che il Natale
porti una famiglia che li adotti
per farli uscire dalla loro condizione
fatta di miseria e disperazione.
A tutti voi auguro
un Natale con pochi regali
ma con tutti gli ideali realizzati.
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kriskris
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Ezra Pound
Prologo di Natale
Eco degli Angeli che cantano Exultasti
Nasce il silenzio da molte quiete
Così la luce delle stelle si tesse in corde
Con cui le Potenze di pace fanno dolce armonia.
Rallegrati, o Terra, il tuo Signore
Ha scelto il suo santo luogo di riposo.
Ecco, il segno alato
Si libra sopra quella crisalide santa.
L’invisibile Spirito della Stella risponde loro:
Inchinatevi nel vostro canto, potenze benigne.
Prostratevi sui vostri archi di avorio e oro!
Ciò che conoscete solo indistintamente è stato fatto
Su nelle corti luminose e azzurre vie:
Inchinatevi nella vostra lode;
Perché se il vostro sottile pensiero
Non vede che in parte la sorgente di misteri
Pure nei vostri canti, siete ordinati di cantare:
“Gloria! Gloria in excelsis
Pax in terra nunc natast”.
Angeli, che proseguono con il loro canto:
Pastori e re, con agnelli e incenso
Andate ed espiate l’ignoranza dell’umanità:
Con la vostra mirra rossa fate sapore dolce.
Ecco, che il figlio di Dio diventa l’elemosiniere di Dio.
Date questo poco
Prima che egli vi dia tutto.
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Hugo Van Der Goes
Trittico Portinari
Trittico Portinari
1475, tre tavole, rispettivamente m 2, 49 x 1, 37;
2, 49 x 3, 00; 2, 49 x 1, 37. Firenze, Uffizi.
Natività
Il trittico Portinari, il capolavoro di un grande pittore fiammingo, Hugo Van Der Goes. Se già le grandi teorie del principio del secolo erano in crisi, l'opera del fiammingo affretta il processo di dissoluzione: dimostrando per esempio, che la prospettiva priva gli oggetti (cose o persone che siano) di ogni vivezza o singolarità di carattere, riducendoli a pure funzioni di un sistema.
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kriskris
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Il Presepe di Greccio
affresco, m 2,70 x 2, 30. Assisi
San Francesco chiesa superiore
Natività
Nel presepe di Greccio sono di mano di Giotto gli elementi prospettici: essenziali perché tutto il significato sta nella giustapposizione di due entità spaziali e di due momenti della storia. Al di qua del piano luminoso dell'iconostasi i chierici e i notabili osannano al miracolo che si compie; al di là s'indovina la navata gremita di fedeli che attendono.
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kriskris
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